Aveva ragione Eric Cantona. Quel pazzo, guascone, folle e bizzoso giocatore del Manchester United degli anni 90, che ora fa l’attore, e che nello splendido film“Il mio amico Eric”, del grandissimo Ken Loach, recitando se stesso, compare nei pensieri di un povero postino travolto dalla vita e totalmente privo di stima e di considerazione in se stesso.
“Se vuoi cambiare le cose, cambia te stesso. Osa. Devi osare. Se non osi, resterà sempre tutto come prima. E devi fidarti dei tuoi compagni di squadra.”.....
Scendo curioso di capire se conosco o meno il concittadino Roberto, il cui tono amichevole e simpatico mi aveva subito trasmesso simpatia ed attenzione. Strano, non lo conoscevo. Velocissime presentazioni, e via, il muso dell’auto verso Saluzzo e in 15 km cerco di fare il primo esame (non richiesto) di riparazione alla scoperta di Cilla, del suo lutto, del perchè , del come, del quando (ammesso che per ciascuna di queste esista davvero una risposta). Un magnifico bignami che in 15 km mi fa sentire parte della squadra. Mi piace, Roberto. Mi ha accolto, senza se e senza ma.
Lambiamo via Bodoni (ci abitava una mia compagna di università) una curva ad S una piccola salita. L’album delle figurine Panini si riempie delle foto di due protagoniste. Cilla, di cui avevo fatto un breve corso accelerato, e Ombretta, di cui non conosco nulla.
“Piacere di conoscerti, sono proprio contenta che ci sei anche tu stamattina”
“Aspetta domani a dirlo”
“No, no, la salita è un problema tuo, ma sono contenta”
L’attuale linguaggio adolescenziale (di cui mi illudo di intercettare ancora labili idiomi) direbbe “cazzuta....” Il loro abbigliamento, la loro risolutezza visiva mi comunica subito una immagine: noi alla montagna diamo del tu.
E io, che sono ancora in dubbio tra il voi e il vossignoria, mi sento piccolo piccolo. Cosa che mi fa un sacco bene, essendo spesso eccessivamente innamorato di me stesso.
Però, penso, Marcello mi aveva dipinto un quadro a colori pastello, della serie “Vieni anche tu nei Ringo Boys”, ma qui sono tra professionisti.
Il tragitto automobilistico è appannaggio dei racconti di Cilla, che evidentemente entusiasta della sua esperienza del Monte Bianco, è animata da autentica volontà di condivisione, ci racconta particolari dell’ascensione, e cerca, molto signorilmente, di coinvolgermi nei discorsi.
Resto ancora sulle mie, ma soltanto per ragioni di manifesta inferiorità alpinistica. Perché la compagnia, da subito, mi piace. Non ci sono convenevoli, giri di parole, c’è molta sintonia.
Chissà se ho portato tutto nello zaino. Beh, ci fosse un telefono azzurro per gli zaini il signor Ferrino in persona potrebbe denunciarmi, ma una voce mi dice che comunque ho dimenticato qualcosa.
Bella giornata. Fredda, ma bella. Speriamo in domani.
Arriviamo al parcheggio, ci attrezziamo e si parte.
I primi cinque minuti, da perfetto rappresentante del sesso maschile, li passo a capire se il ritmo di questi tre è simile al mio, o se già dai primi passi vien fuori che resto dietro. Non è per fare una gara, ma per la mia paura di sentirmi inadeguato, e di risultare una palla al piede alla comitiva.
Saliamo insieme, per un sentiero che non conosco se non nel tratto iniziale. Si parla di tutto, o meglio, in tre ascoltiamo, ogni tanto Roberto interviene, il resto è Cilla Show. Ma non è che lo fa apposta, è proprio così. Nel mezzo, due o tre telefonate per dare continuità al caleidoscopio di attività che intuisco si porti con sé. Non ho ancora capito che lavoro fa.
Salendo glielo chiedo e piano piano il mio album di figurine si compone di nuovi pezzi da attaccare. Ad ogni pezzo, mi sento più a casa. Stiamo cercando il bivacco Berardo.
Il passo di Ombretta non ammette repliche. Le sto in scia, dietro, la lingua di Cilla e poi due metri dopo il resto del suo corpo e Roberto.
Vallone selvaggio, non una nuvola, il verde e l’azzurro sanno di essere gli autentici padroni della scena e stanno lì, netti, vivaci, intensi. Guardandosi a vicenda per stabilire chi attiri di più il nostro sguardo. Bella lotta.
Ecco il Berardo. Pranzo. Poso lo zaino, incuriosito dalla dimensione degli zaini altrui, che sembrano raccolti e intensi. Peso quello di Cilla. Cavolo, altro smacco, altra vocina interna che mi dice: “ma tu da che pianeta vieni ?”.
Il momento del pranzo in montagna per me è sempre stato quanto di più autenticamente comunitario esista al mondo. Ciascuno ha qualcosa, tutti offrono qualcosa agli altri. Il fatto di avere del nebbiolo al seguito genera stupore. Mi fa piacere che Ombretta gradisca. Comincio a fare l’Uomo del Monte proponendo banane come se piovesse. Pensano siano liofilizzate.
Capisco la mia comica unicità. (Segna, per la prossima volta tutta roba in bustina o in polvere).
Ripartiamo alla volta delle Forciolline, che un caro amico mi ha descritto in modo entusiasmante.
La pietraia dopo pranzo è quella che Montalbano descriverebbe come “un rompimento di cabasisi”.
Intuisco che dietro la sommità che stiamo per valicare ci sia un bel paesaggio. Sono curioso. E contento, perché stiamo insieme e sto nel gruppo.
Cilla è molto attenta a farmi sentire della banda, e, dopo aver visto il nostro punto di arrivo, mentre scendiamo mi chiede da quanti anni siamo sposati e se abbiamo figli. Lo fa in modo diretto, senza giri di parole o frasi fatte. Lo apprezzo.
E parlando del percorso di adozione che stiamo vivendo, si apre un mondo comune, e mettiamo insieme la sua esperienza di famiglia affidataria e con quello che stiamo vivendo attualmente.
Alla nostra destra sfioriamo le pareti di un monte, lisce come levigate da un enorme foglio di carta vetro. Si scende, il blu intensissimo dei laghi è un bellissimo premio per i nostri primi sforzi.
Ecco la guida. Ha proprio la faccia da guida, come mi avevano detto in macchina. C’è tanta gente, chissà se siamo riusciti a trovare posto. Ci ha pensato Silvio, con la sua calma olimpica e la sua silenziosa efficienza.
Fresco.
Roberto va a dormire e lo seguo poco dopo. Il bivacco è un gioiellino. Ho i piedi scoperti, e sento fresco. Non dormo, ma mi rilasso.
Metà pomeriggio, esco. Cerco un contatto con Silvio, due battute. Vedo uno stambecco a parete e comincio ad avvicinarmi. Troppo forte per le mie velleità fotografiche. Lo immortalo a tre metri di distanza. Placido, maestoso, consapevole delle mia vicinanza innocua.
Chissà Marcello e suo figlio. Le ore passano, le ragazze stanno immobili al sole, forse anche quando il sole non c’è più a conversare con Silvio. Io sono felice perché sono in un posto meraviglioso, ma dentro di me si agitano pensieri cupi, tipici del mio retaggio educativo (non fare questo, stai attento a quest’altro. Sono qui anche per allontanarmi da questo. Ma ci riuscirò ?)
Passano le ore, entro nel bivacco, ma Cilla, che sta scrivendo le sue memorie quotidiane, mi fa capire che c’è una riunione condominiale in atto e qualche inquilino pare non essere d’accordo sulla gestione dei millesimi...passo dopo. Varia umanità anche in altura. Penso sempre che l’altitudine sia un valido filtro per le umane sciocchezze, sono ancora convinto che sia così, ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola. Ma Marcello ? Me lo vedo, con il suo sorriso a prescindere, incurante delle ore e del calar del sole, che sale chissà per quale sentiero. Tanto poi arriva.
Una breve edizione di”Chi l’ha visto” in versione 3000. Robi e Ombretta vanno verso le Sagnette (Che ho capito dopo manca all’album di Roberto e muore dalla voglia di vederle.) Sento urlare per valle ma non capisco -E’ Roby che prova a chiamare Marcello, me lo dirà dopo- Niente.
Ancora mezz’ora e arrivano i nostri eroi. Ecco il sorriso di Marcello, poi quello, meno convinto, di Luca. Si sono persi, hanno fatto un sentiero diverso dal nostro.
Ma la pentola sta bene ?
E comincia un altro atto del nostro show.
Tutti intorno ai fornelli (omonimi di quelli che animano i miei incubi da una settimana). Bella compagnia, gioia di vivere, di condividere. Ogni cosa gira in tutto il tavolo. Aldo, di Fossano, entra nei Ringo Boys e anche se non mangia fa parte della squadra. Figlio e nipote, simpaticissimi sono fuori per foto. Così come ho sempre fatto in tutta la mia vita io. Ma oggi no.
Parlo con Aldo e intavoliamo discorsi sull’etica del lavoro e scopro una sua grande sensibilità. “Noi bancari non dovremmo avere un budget, dei titoli da vendere per forza”. Che bello stare a 3.000 metri e parlare di argomenti veri con persone vere.
Ottima cena, piazzo persino, tra l’ilarità generale, due o tre banane. Per le angurie, come mi chiede scherzosamente Roberto, mi sto attrezzando.
Il bivacco piano piano va a dormire. Un pensiero alla sit con zio nipote Andreotti – Forciolline.- Ci ho ripensato – ma proprio adesso ?. Da film di Verdone.
Andiamo a dormire. Mi autodenuncio dicendo a Cilla che russo e ci accordiamo che se lo faccio lei mi sveglia dandomi dei colpi sui fianchi. Non ricordo di essere stato toccato così tanto in un notte.....Quando piombo nel sonno evidentemente taglio subito legna. Sopra Marcello pare un usignolo, forse abbatte piccoli bonsai. Io sono alle prese con sequoie secolari...In più mi prende un crampo alla mano e mi sveglio di soprassalto. Cilla perde un anno di vita per le scosse dovute al mio scatto improvviso. Scusa......
Roberto si alza verso mezzanotte. Sospetto che non sia per toilette, ma per andare alle Sagnette....
Alle due tutti svegli. Cilla guarda fuori e sembra neve. No è la luna, dice Roby. Io guardo, ma sono senza occhiali. Mi sembra neve, ma anche Armstrong, se mai è davvero stato sulla luna, aveva davanti uno scenario simile. Continuo ad essere tormentato da pensieri di inadeguatezza e ho paura di diventare un freno alla compagnia nella salita. Non me lo perdonerei...
Non dormiamo più. A turno ci si alza. Speriamo di aver messo tutto nello zaino.
Inauguro la luce appena comprata da Decathlon, e mi riprometto di guardare solo davanti a me, in basso. Devo metterci la testa. Vediamo dove arrivo.
La montagna ci accoglie in un’atmosfera lunare. Salendo, si ha la netta sensazione di entrare a mano a mano in un grande abbraccio. Il Viso sembra un grande vecchio rugoso che ti accoglie nel mantello del suo abbraccio. Ma è un grande vecchio cui devi portare rispetto e non dare del tu.
Albeggia. Quindicesima foto di Cilla e ventesima di Marcello. Se gli dico che da fotografo non posso vedere la gente fare foto con una mano sola mi ammazzano. Suggerisco di appoggiare su una racchetta.
Non alzo troppo lo sguardo. So di essere piccolo piccolo e di avere soltanto da imparare. Testa bassa. Fa benissimo al mio ego. Camminare di notte non ti consente di distinguere troppo distanze, asperità. Tutto si gioca nei 2 metri davanti a te. Sali su, addormentato e concentrato nello stesso tempo. L’oscurità ti impedisce di avere pensieri laterali. Tutto si gioca in quel corridoio di luce che si muove. Piano piano sale la luce del giorno.
Eccolo, l’Andreotti.
Piccolo. Forse ci mettiamo l’imbrago. No, non ancora. C’è il nevaio che a Cilla non piace. Sembra in piano. Sopra un sentiero su terra che non mi piace molto.
Aspetta, una cosa per volta.
Finiamo la neve e montiamo su. Non scivolo, sono saldo. Le mie pinne, il mio 45. si piantano salde.
Ecco, qui posiamo le bacchette. E si fa sul serio.
Chiedo a Silvio come si mette l’imbrago. Con dolcezza e calma mi dice poche cose ma estremamente chiare. Poi mi lega e mi dice si stare tranquillo. E io, miracolosamente per il mio carattere, lo divento fino in fondo. Primi momenti di corda. Si lambisce una cengia, sotto a sinistra è un po’ esposto. Chi se ne frega. Non mi fa né caldo né freddo. Il mio occhio cerca il prossimo angolo, il prossimo appiglio. Tutto il resto non conta. Si comincia ad arrampicare. Non l’ho mai fatto con le corde. Cilla mi ha detto che è divertente. E’ dietro di me. So che mi guarda e mi protegge, anche senza dire niente. Davanti mi guida Silvio. Sto da puciu.
Mi sto divertendo e sopratutto penso ad una cosa sola: salire. La mia mente, così cervellotica, caotica, a volte geniale e a volte labilissima, non si perde nei soliti mille rivoli o pensieri.
3.500 metri, chiedo a Silvio se facciamo una piccola pausa.
“Alla sala da pranzo”.
Chissà se è apparecchiato....
Otticamente, non è difficile trovare la concentrazione. Perché almeno fino adesso, ci siamo sempre trovati dedali verticali, con pareti avvolgenti, chiuse, limitate. L’occhio non riesce a percepire la grandiosità di questo grande gigante di pietra. Ne vede solo singole piccole rughe. Ed è affrontandole ad una ad una che si deve fare. Come nella vita.
Breve sosta, e poi ripartenza. “Ma i pezzi duri devono ancora arrivare, giusto ?”.
La mia domanda trova Silvio sempre ad una curva sopra, e non mi arriva risposta. Ma un silenzio complice. 3.600. Forza Giorgio, ora sai che ce la farai. Non importa in che condizioni ci arrivi, ma ci arrivi. Bel passaggio. Nessuna esitazione.
“Ma sti Fornelli quando arrivano ?”
“Li hai appena fatti”
Marcello spunta da ogni anfratto come un fauno irridente e ci chiede una posa per le foto. Dietro di lui un francese che si “innamora” di lui durante la salita e che urla comicamente “Marcello”...ad ogni dove. Fossi uno estraneo che si trova lì, penserei di aver trovato la versione alpina di Dolce e Gabbana. Can e gat...
Ci siamo.
Gli ultimi 150 metri li fai chiedendoti che faccia avrà la croce, dopo quale roccia comincerai a vederla. Ancora 5 minuti. E’ fatta.
Vetta.
La giornata è favolosa. Immaginavo un tuffo al cuore. Ma non arriva. Il panorama è incredibile, eppure non provo vibranti emozioni. Penso a Simona, ad Amleto, come farei senza di loro, penso ai miei più cari amici che mi hanno spronato e sono un po’ in pensiero. Penso che mi sono divertito tantissimo. E ho una calma olimpica.
Sono avvolto da una sensazione unica che non ha bisogno di guizzi emotivi per farmi stare bene. Perché non sto bene, sto da Dio.
Ci raccogliamo, per ricordare Lia. Bellissimo perché ci isoliamo in un attimo, anche se in punta c’è traffico. Siamo una piccola tribù affiatatissima. E io sono lì da meno di 24 ore.
Ognuno toglie l’imbrago alla propria coscienza e dice agli altri cosa sta sentendo. Solo Silvio non dice nulla. Ma lo fa, io credo, per rispetto, e il suo silenzio vale mille parole, perché ha il peso della saggezza della montagna. Non ho conosciuto Lia, ma sento che c’è. E che sta vegliando anche su di me.
Si torna giù. Ora devo capire sto metodo Cul-man se funziona.
Scendendo ed essendo l’ultimo dei normali (sopra c’è Silvio che rappresenta una sorta di divinità Olimpica) vedo gli altri sotto di me. Cerco di non far cazzate con la corda, di tenerla tesa. Un paio di volte lascio Cilla a 20 cm dall’appoggio, ma sento la sua fiducia. Ci muoviamo bene. Siamo un’orchestra, e non abbiamo fatto prove.
Patisco solo la sete. Silvio scende dall’Olimpo e mi passa la borraccia.
Fine dell’imbrago. Divertente dal primo all’ultimo metro, come aveva detto Cilla.
Occhio alla discesa prima del nevaio. Fatto.
Nevaio. Cilla prende l’”andi”. Buffa.
Fine nevaio, via gli imbraghi, Cilla e Ombretta mi passano la vichy. Non potevano farmi migliore carezza. Andreotti bis (come i vecchi governi) e giù in pietraia. Che ora scorgiamo nella sua totale, petulante ripetitività. Fastidiosa. Sto dietro, non tanto per stanchezza, ma perché so che al fondo della camminate la mia mente vola altrove e le mie caviglie altrettanto. Qui no, non deve succedere.
Il ritorno tra i due bivacchi mi sembra più lungo.
Finalmente al lago, rifornimento borracce e rifugio.
“Mezz’ora” sentenzia Silvio.
Un pediluvio, un respiro, pranzo frugale, faccio il ricongiungimento famigliare di tutti i miei tanti averi portati su, risodomizzo lo zaino ( e dire che il cibo l’abbiamo mangiato tutto, eppure è di nuovo pieno). Riprendiamo la discesa, stavolta per il vallone delle Forciolline. Non sono stanco di gambe ma di testa. L’idea di avere ancora 4 ore, 13 kg sul groppone cozza contro la mia forza di volontà. Tra l’altro i pantaloni elastici mi diventano larghi. Ho perso del peso. Mi fermo a cambiarli. Marcello, dolcissimo, mi aspetta. Me la prendo più lentamente perché non voglio fare passi falsi e rovinare tutto.
Gli altri sono 50 metri sotto.
Vallone molto selvaggio. Bellissimo, ma la mia sensibilità visiva è parcheggiata in seconda fila.
Silvio si ferma ad attrezzare meglio un passaggio. Mi piace la sua dedizione e la sua attenzione per gli altri, che va al di là del suo ruolo.
Finalmente la pietraia lascia spazio al sentiero.
Mi riallungo e incrociata la via del Vallanta, raggiungo la testa, e partecipo alla discussione sul Monte Rosa. Resto con Cilla. Finalmente il telefono dà segni di vita: chiamo Simona e vedo alcuni messaggi di amici. Mi riempie il cuore sapere della loro vicinanza.
Arriviamo alla macchina. Sono sudatissimo ma non ho più la forza mentale di rovistare nello zaino da cui ho tra l’altro il dubbio di aver perso un rullino scattato nel primo giorno fino al Berardo. (Forse l’ho perso in cima, un genio)
Una birra, mentre esce la stanchezza a braccetto con la gioia della consapevolezza.
Sono stato accolto nella più totale gratuità umana e cristiana.
Senza se e senza ma.
Ciascuno mi ha osservato senza farsi notare più di tanto, stando sempre attento alle mie esigenze o ai miei eventuali problemi.
Torniamo a casa e prima del commiato, Cilla mi porta il libro di Lia. Saluto Cilla ed Ombretta e sento che sono state felici di avermi con loro.
Roby mi lascia sotto casa, con la consueta gentilezza e simpatia.
A casa mi accolgono con calore. Una parte di me è inevitabilmente altrove, tra quelle pareti, imbragato ancora ad un sogno che mi visitava spesso. Andare sul grande Re di Pietra.
Mattina, treno.
Guardo fuori.
Bello, ma non come ieri.
Il Viso pare strizzarmi l’occhio.
Tra le mie mani si manifestano le prime pagine della poesia di Lia.
E sento che è è tra queste pagine, e non prima, che posso ritenere conclusa questa splendida avventura.
Al pomeriggio l’amico Mario, che mi aveva accompagnato in una camminata preparatoria, e cui avevo decantato la salita (scoprendo che conosce Cilla ed è stato vicino di casa di Silvio) mi informa della scomparsa di una persona sui Fornelli.
Un’ombra passa nel mio cuore.
Ed è qui che penso ancora più intensamente alla vita.