SUL GRANPARADISO PER LIA – 8/9 AGOSTO 2012 “A volte i nostri doni più grandi nascono da ciò che non ci viene dato” (E. Bauermeister)
13 AGOSTO 1986 – 13 AGOSTO 2012
26 anni fa oggi ero sul Gran Paradiso. Una punta, inserita in un trekking dell’omonimo Parco, fatta quasi per scommessa. Io e Bruno, amico fragile ed esile come un grissino, eravamo dei cinque quelli destinati a non arrivare in cima perché non abbastanza allenati. O almeno così la pensavano gli altri compagni, tutti attrezzati, griffati e firmati. E invece, ironia della sorte, siamo stati gli unici ad arrivare in punta. Così. Semplicemente. Senza essere legati e imbragati. Non ricordo nemmeno se avevo i ramponi. Presumo di si. La ricordo una salita impegnativa ma non particolarmente faticosa. Il ghiacciaio era sicuramente più bello e in punta ero arrivata dalla Madonnina, facendo quel passaggio molto esposto, senza alcun problema. Ripensandoci oggi, dovevo essere o matta o molto allenata o tutti e due. Nonostante il dolce peso che mi portavo appresso, salivo pendii e coprivo dislivelli come uno stambecco, ricca sicuramente dell’energia dei miei 20 anni. Oggi a 48 anni quasi compiuti, salire sul più piccolo dei 4000 metri è stata tutt’altra faccenda.
Ma andiamo con ordine.
Siamo partiti da Saluzzo mercoledì 9 agosto in una splendida mattinata di sole con un cielo azzurro da cartolina. Ci siamo ritrovati in 9 nel cortile di casa mia a rifornirci del materiale che la nostra Guida Silvio mi aveva lasciato un paio di giorni prima. Lui per motivi di lavoro ci avrebbe raggiunto al rifugio Chabod solo in serata. Ci ritroviamo, amici di sempre e volti nuovi, felici ed entusiasti di questa nuova avventura che ci aspetta. Facciamo due macchinate. In una Roberto, Marcello B., Livio ed io; nella altra Marcello P., Elisa, Adamo, Mauro e Pietro, le tre new entry del gruppo. In auto chiacchieriamo piacevolmente di tutto, accompagnati dalla guida altrettanto piacevole di Roberto. Io sono serena e contenta, forse solo un po’ preoccupata per l’impresa che ci attende l’indomani. Il fatto di averla già fatta, anche se dal rifugio Vittorio Emanuele, un po’ mi rincuora. Avrò modo di sperimentare che le cose cambiano, che noi cambiamo e che la memoria seleziona e ricorda ciò che vuole.
Arriviamo verso mezzogiorno al parcheggio dove c’è l’attacco del sentiero e lì troviamo ad attenderci Carla e Ombretta. Ombre l’ho vista recentemente perché abbiamo fatto insieme un trekking di tre giorni in alta valle Maira, ma Carla è da un anno che non la vedo! Ci abbracciamo strette, saltiamo e ridiamo come due bambine. Che bello ritrovare queste due amiche che conosco da 29 anni, vecchie compagne della scuola Firas per educatori.
Ok! Il gruppo è al completo: ci siamo tutti e undici! Ci si saluta, ci si presenta, si inizia a prepararsi sistemando zaini e materiale, mettendosi scarponi e mangiando qualcosa di veloce perché in fondo è quasi l’una ed è l’ora di pranzo. Mentre infilo gli scarponi riesco anche a spiegare a Mauro, che non sa nulla, il motivo della nostra gita che va al di là della semplice impresa alpinistica, perché ha l’obiettivo di ricordare Lia: non vogliamo piangere una morte ma celebrare la Vita.
Foto di gruppo con l’autoscatto e si parte. Il sentiero è bellissimo. Nella prima parte si inerpica dolcemente in una pineta dove io sostengo esserci gnomi e fatine del bosco!
Poi si esce allo scoperto e si inizia a intravedere la destinazione della nostra gita l’indomani.Nel frattempo il gruppo si è sfaldato e alla fine rimaniamo io, Ombretta, Carla e Livio che si adegua al nostro lento passo da “montagnine”. Parliamo di tante cose e io approfitto della salita per stare un po’ con Carla: è bello sentire il legame che c’è tra noi, così tenace da durare da tanti anni.
Arriviamo al rifugio dopo 2 ore e mezza di salita e 1000 metri di dislivello. Lì troviamo il resto della comitiva già sbracata, senza scarponi e con qualcosa di mangereccio tra le mani. Solo Pietro è arrivato poco prima di noi e sembra non stare tanto bene.
Faccio le veci della guida che non c’è e poco dopo ci sistemiamo nel sottotetto in una bella camerata da una quarantina di letti. Scherziamo, ridiamo su chi dorme vicino a chi, chi russa e chi no. Io mi trovo un posticino nella cuccetta più bassa tra Livio e Roberto. Non ho grandi aspettative rispetto al dormire perché so già che non dormirò un granché: il rifugio non è il posto ideale per dormire! Questa volta ho con me i tappi per le orecchie per cui russatori inopportuni saranno prontamente annientati!
Invidio Marcello, Pietro e Adamo che appena toccano il cuscino dormono già. Io preferisco scendere con gli altri per un po’ di “cazzeggio” pomeridiano, nell’attesa di far arrivare l’ora della cena.
Il rifugio a quota 2750 è una bella costruzione con tanto spazio attorno. Ci sono parecchie persone. Livio ritrova il suo sherpa che l’ha accompagnato in Nepal anni fa e facciamo la conoscenza di Riccardo, giovane giocoliere e funambolo innamorato, il quale è arrivato da Biella da poco e ripartirà la mattina dopo alle 5 solo per stare qualche ora con la sua fidanzata che lavora al rifugio. Ah, l’amore che cosa fa fare!!! Ebbene sì, ammetto ad Ombretta di averli proprio invidiati con la loro freschezza e il loro entusiasmo. Quanta tenerezza!
Per ingannare il tempo qualcuno di noi si improvvisa funambolo su un nastro teso dallo stesso Riccardo che, a quanto pare, lavora con gente pazza che paga per buttarsi a testa in giù da un ponte alto 150 metri, legati per le caviglie a un elastico!
Inizio ad accusare un po’ di stanchezza e sbadiglio abbondantemente. Probabilmente mi coricassi ora riuscirei anche a dormire, ma voglio tenermi la stanchezza per dopo sperando che mi faccia crollare e dormire qualche ora.
Il tempo è bellissimo, ventilato e caldo per essere le 18 a quasi 3000 metri. Guardo verso il GranPa e cerco di individuare la traccia del sentiero per salire in punta. Visto da sotto il ghiacciaio sembra proprio ripido! Meglio non pensarci…
Arriva l’ora di cena e affamati ci buttiamo sul salame che Adamo ha portato da casa. Dimenticavo… Adamo è il genero fresco fresco di Marcello P. e di professione fa il militare: per lui portare zaini che pesano più di 30 kg. è assolutamente normale. Quindi dal suo zaino, non proprio da Eta Beta, escono anche un paio di bottiglie di vino e non so che altro.
La cena è buonissima e mangio come un lupo, facendo anche il bis della minestra di verdura. C’è perfino il salame dolce fatto dalle magiche mani di Wilma, moglie di Marcello P., ormai famosa per i suoi dolci squisiti. Verso le 20 arriva Silvio con il figlio Giacomo, che a 14 anni vuole fare il suo primo 4000. Complice anche un po’ di vino bianco e un dito di limoncello (davvero non reggo l’alcool…) mi diverto come una matta, rido a crepapelle fino alle lacrime. Sono davvero rilassata e in pace.
Dopocena ci si ritrova fuori con Silvio che prende in mano la situazione e ci divide in cordate.
Cordata n°1 con Silvio: io, Carla, Pietro (che sta un po’ meglio dopo la visita di Livio…) Marcello B. e Giacomo.
Cordata n°2: Roberto, Ombretta, Elisa e Marcello P.
Cordata n°3: Adamo, Livio e Mauro.
Come sempre l’occhio esperto di Silvio vede e provvede. In fondo è una gran bella responsabilità portare su un 4000 dodici persone!
La sveglia è prevista per le 3.30, colazione alle 4 e poi si parte.
Ed eccoci qui al momento tanto atteso della partenza dopo una notte non proprio di grande riposo. Ma quando mai io dormo bene in rifugio?! Il problema però ora è il forte mal di stomaco che ho da quando mi sono svegliata. Cavolo! Non ci voleva proprio… Meno male che ancora una volta c’è Livio che oltre a rifornirmi di diuretici e aspirina, mi trova anche un Buscopan. Cerco di fare un po’ di colazione ma la roba non mi va davvero giù.
Partiamo alle 4,45, una bella fila indiana che illumina con le frontali il sentiero che porta al ghiacciaio. Io sono decisamente preoccupata. Non sto bene. Il male allo stomaco si sta attenuando ma non sono in forma e fatico a carburare. A volte ho anche voglia di vomitare e più di una volta mi dico “Se Pietro sta male torno indietro con lui”. Sento gli altri che parlano a manetta e mi chiedo come fanno. Io cammino concentrata sul sentiero, un passo dopo l’altro illuminato dalla mia pila e cerco di trovare un ritmo, che è poi quello che mi permette ogni volta di camminare per ore. Ogni tanto alzo la testa e vedo le cordate che ci precedono, tante lucine nel buio della notte che inizia a schiarirsi in una nuova alba.
Alle 5.45 siamo all’attacco del ghiacciaio che si presenta brutto e crepacciato. Ci vorranno tre quarti d’ora per preparasi, imbragarsi, ramponarsi e legarsi nelle singole cordate, il tutto sotto la regia di Silvio che fa, disfa, lega, allaccia ramponi e controlla che tutto sia a posto. Io sento un freddo becco: sotto la giacca a vento sono tutta sudata e l’aria fredda si infila sotto gli indumenti. Sto un po’ meglio ma sbadiglio in modo preoccupante. Patirò già la quota? Il fantasma del Bianco è sempre lì che fa capolino… Ma no, non può essere… Cilla sei solo stanca, datti una trapanata e cammina!
Con le prime luci dell’alba, riposte le frontali negli zaini, partiamo in cordate. Non è la prima volta che cammino in cordata ma ogni volta mi stupisco di quanto non sia facile camminare legati ad altri e di quanta umiltà e pazienza ci vogliano per accordare il proprio passo a quello degli altri. Quella corda che non deve essere troppo molle, ma nemmeno troppo tirata… “in tiro” … come ci sentiremo ripetere più volte da Silvio, che veglia su di noi col suo occhio da falco.
Grande Silvio! Lo sorprendo con la macchina fotografica mentre guarda giù e aspetta che nella cordata sotto si risolva un problema con un rampone. Ha proprio una faccia da “Ma chi me lo ha fatto fare?!” Non oso neanche pensare al peso della responsabilità che deve sentirsi sulle spalle per portare su un ghiacciaio pieno di crepacci 12 persone!
Già i crepacci… è’ deciso: io odio i crepacci! Mi fanno paura. Per piccoli e stretti che siano li trovo insidiosi e bastardi. Il problema si pone quando c’è da attraversarne uno largo un metro e profondo non oso pensare quanto. Sono stanca e non troppo in forma e quando Pietro salta davanti a me, dando uno strattone alla corda, io mi sento tirare dentro. E’ fatta. Basta questo a scatenare una crisi di panico coi fiocchi. Urlo che non ce la faccio e che voglio tornare indietro. Meno male che Silvio, guardandomi bene negli occhi, mi pianta due urla e io, non so come, riesco a passare. Bravo Silvio che mi hai preso di brutto, perché con le buone ero ancora là adesso! Il panico non ha spazio per la razionalità, ma solo per l’emotività impazzita, paura allo stato puro, e quando è così è bene che qualcuno, con la sua voce forte e sicura, ti dica quello che devi fare. Però… che strizza!
Dopo ancora un paio di crepacci, fortunatamente più stretti, il ghiacciaio diventa più bello e il rampone morde bene il fondo. Peccato che la pendenza non sia uno scherzo. Mi ricorda tanto quella del Monte Bianco… meno male che siamo più bassi e non ho problemi di fiato. Sento gli altri che camminano dietro a me in silenzio. Solo silenzio e respiri più o meno affannati. Tredici persone che salgono verso il cielo, cercando di uniformare il loro passo e arrancano e faticano persi nei loro pensieri ed emozioni. Ogni tanto sento Robi che dà l’altitudine … 3200… 3300… 3500… per il 4061 del GranPa ci vuole ancora un po’. Eppure salgo, 100 metri per volta e le mie gambe docili e forti mi accompagnano senza mai tradirmi. Non ho problemi di fiato, sono solo un po’ tanto stanca.
Mentre salgo e arranco dedico la fatica ai miei figli: a Lia che mi aspetta in cima col suo sorriso dolce e bellissimo e che mi sta dicendo “Forza mamma che ce la fai!”; a Beniamino che sta studiando sulla sua amata chitarra per la laurea di fine settembre; a Simone che attualmente è in Inghilterra in vacanza-studio e che con i suoi 16 anni e il suo metro e ottanta mi ricorda che sta crescendo in fretta; a Rebecca, bella come un cuore, che a 13 anni attraversa le sue belle fatiche da adolescente.
Prego per loro, per le loro vite, per le fatiche, i dolori e le gioie che incontreranno nei loro cammini e che io – come dice Gibran – neppure in sogno potrò visitare. I figli non sono nostri. Sono solo un bellissimo prestito. Ci vengono affidati per un po’ e poi occorre lasciarli andare, perché volino via con le loro ali che noi abbiamo contribuito a rendere possenti e forti, si spera.
Penso a Enzo Paolo che mi sostiene e mi ama da anni, accettando di avere una moglie un po’ fuori dal comune (per usare un eufemismo…)
Ogni tanto alzo lo sguardo e la bellezza della montagna attorno mi incanta. Il Bianco si erge in tutta la sua magnifica possenza e man mano che prendiamo quota diventa sempre più maestoso. Il Monviso, amico di casa, fa capolino da lontano.
Arriviamo alla Schiena dell’asino e va decisamente meglio. Da un po’ vedo la punta e so che ce la farò senza problemi. Mi sto “dopando” con latte condensato che tengo direttamente nella tasca della giacca a vento e che mi sparo in bocca dritto dal tubetto. Che meraviglia! Dolce, concentrato, neanche da masticare, puro zucchero che entra subito in circolo.
Il tratto finale è ripido quanto basta ma col passo di Silvio che ingrana la prima ridotta, lenta e regolare, arrivo in cima senza problemi. C’è molta gente che inizia a scendere e meno male perché la vetta sembra Rimini in agosto!
Alle 9.45 dopo 5 ore (in realtà 4.15 di camminata) arriviamo in cima, o meglio all’attacco delle rocce che in pochi metri portano alla Madonnina della punta.
Silvio fa fretta. C’è troppa gente, occorre sbrigarsi. Togliamo i ramponi, io poso anche lo zaino e lasciamo lì Marcello B. che con un braccio solo preferisce non venire. Vedo il suo volto triste, intuisco il suo dilemma interiore, ma so che cosa ci aspetta – anche lui lo sa – e penso sia saggio che si fermi ad aspettarci.
Quei pochi metri che ci separano dalla punta vengono fatti con molta attenzione. Ci sono passaggi molto esposti e soprattutto tanta gente da tutte le parti. Ci si ferma spesso per permettere ad altri di scendere, facendo attenzione a non intrecciare le corde delle varie cordate… non fosse pericoloso ci sarebbe da ridere! C’è un passaggio completamente esposto servito da due anelli a cui attacchiamo le nostre corde e che richiede l’uso di entrambe le mani: una per tenersi e l’altra per sganciare e riattaccare la corda. Il pensiero corre a Marcello che ci aspetta di sotto e sono contenta che non sia venuto.
Raggiungiamo la punta alla spicciolata e alcuni di noi fanno la foto con lo striscione CIAO LIA! Siamo tanti e lo spazio è talmente ristretto che proprio non ci stiamo! A differenza di altre volte non abbiamo tempo di fermarci per il nostro momento di raccoglimento e decidiamo di farlo al rifugio.
Un po’ invidio Marcello che ha avuto tempo di godersi tanta meraviglia. Il panorama è mozzafiato ma i miei occhi sono impegnati nella discesa su quelle rocce esposte ai quattro venti.
Mentre siamo su un pietrone in attesa del nostro turno per scendere, due ragazzi sono seduti (forse stanno aspettando che ce ne andiamo?) e uno di loro mi offre la mano per tenermi. Cosa che faccio molto volentieri, ringraziandolo con il mio più caldo sorriso. Non ricordo neanche che faccia avesse, ma quella mano offerta con simpatia per evitarmi di volare di sotto, mi rimarrà nel cuore per sempre! Questo è anche l’alpinismo!
Affrontiamo la discesa più a cuor leggero. Siamo stanchi ma tutti in forma. Anche Pietro ora sta benissimo. Anzi sta talmente bene che inizia a parlare e non si spegnerà fino al parcheggio! Si vede che è felice di avercela fatta e io sono contenta per lui… certo se avesse un pulsante per spegnerlo ogni tanto…
La prima parte va via in scioltezza, nonostante le forti pendenze che ci fanno esclamare “Ma siamo saliti su di qua?”. La seconda, quella più bassa e crepacciata, è una gran rottura e non finisce più. Silvio riprende la guida delle tre cordate e porta al fondo anche un bel gruppo di persone che stanno vagando nella parte finale del ghiacciaio: sembra una chioccia con tanti pulcini! Io sono molto orgogliosa di lui: brava vero la nostra Guida? Talmente forte e affidabile che di fronte al “crepaccio maledetto”, che mi ha causato una crisi di panico all’andata, sto zitta e salto anche se per il balzo anzitempo di Carla che mi tira la corda, rischio un infarto!
In un’ora e 45 arriviamo alla fine del ghiacciaio e ci togliamo volentieri corde, ramponi e imbraghi, soprattutto per un forte bisogno di fare pipì di noi donne meno comode dei nostri compagni uomini.
Altri 45’ e arriviamo al rifugio, sentiero che trovo eterno… al mattino, al buio non mi era sembrato così lungo. Faccio attenzione perché sono stanca ed è facile cadere e farsi male: ci vuole un po’ ad abituarsi a camminare senza ramponi.
Arriviamo al rifugio alla spicciolata. Mi cambio mettendomi roba leggera, bevo l’acqua fresca della fontana e subito dopo ci metto sotto i piedi! Anche se non ho granché fame mangio qualcosa perché altri 1000 metri ci aspettano. Salutiamo Silvio e Giacomo che scendono a valle e ci regaliamo il nostro momento di raccoglimento che si rivela essere denso di emozioni e commozione. Ognuno di noi dice quello che ha nel cuore e io mi commuovo a vedere le lacrime di Marcello, a sentire le parole di Livio, a intuire il silenzioso dolore di Elisa… Siamo tutti lì con le nostre ferite, i nostri bagagli piene di umane sofferenze e gioie, con i nostri perché che neanche a 4000 metri hanno trovato risposta; ma torniamo a casa diversi, forse più leggeri, per aver condiviso fatica e bellezza e respirato insieme l’aria rarefatta del GranPa, nonostante stanchezze, tentennamenti, pressione alta e mal di stomaco.
La discesa all’auto scivola via tra una chiacchiera e l’altra con l’intermezzo di Livio che, geloso dell’esperienza di Ombretta dell’anno scorso, si rompe lo scarpone. Meno male che Robi ha due paia di scarpe e Livio così scenderà a valle con una scarpa e una soca!
La discesa, bella e interminabile (siamo proprio stanchi!), viene allietata dai canti a squarciagola dei 4 maschietti che ci seguono, guidati dal fedele Pietro che ormai non si spegne più… chissà cosa gli avrà dato Livio? Tra l’altro, scopriamo un dottore canterino con voce splendida… proprio una bella sorpresa!
Dopo 1 ora e 50’ siamo alle auto. La nostra gita si è conclusa.
Siamo in piedi dalle 3.30 del mattino, abbiamo fatto 1300 metri di dislivello in salita e 2300 in discesa, camminando circa 9 ore. Mi sembra che anche per quest’anno abbiamo dato. Alla prossima ragazzi! Che per inciso è già deciso, sarà il Castore, quota 4200 nel gruppo del Rosa. Meno male che quando ero in punta ho detto: “Questo è stato il mio ultimo 4000!”
Vorrà dire che continuerò a urlare la mia solita imprecazione che ogni volta che arranco su un ghiacciaio mi scappa di dire:”Ma chi c...zo me lo fa fare?!”
Ma io lo so che cosa mi spinge ogni volta ad andare per vette…
Montagna è per me trascendenza, respirare a pieni polmoni, fare fatica e gioire al contempo. E’ disciplina, condivisione dell’impegno della dura salita con altri amici e sapere che questo vale più di mille parole e tanti discorsi. E’ accettare di farsi vedere fragili, deboli e in panico di fronte a un crepaccio largo un metro. E’ cadere perché inciampi nei ramponi e non farsi male perché gli altri ti tengono. E’ cenare insieme, al caldo di un rifugio e ridere a crepapelle fino ad avere le lacrime agli occhi. E’ parlare di sé e di cose importanti mentre si condivide il sentiero. E’ essere talmente stanchi da non avere neanche più la voglia di parlare e di mangiare. E’ portare in alto il tuo immenso, grande, dolore e stemperarlo nell’aria pura, insieme ai tanti dolori degli altri. E’ per me essere più vicina a Lia e a quel Paradiso dove ora lei abita.
E ora gli attori di questa salita:
Saluzzo, 13 agosto 2012 Cilla
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