L’altro giorno, 20 agosto, abbiamo fatto con Ombretta, Simone e Beniamino, il giro del Monviso in giornata. 2380 metri di dislivelli. 36 chilometri. 13 ore e un quarto di strada. O meglio di sentiero. Perché di questo si tratta quando si parla di montagna.
Sentiero ovvero “percorso a fondo naturale tracciato in luoghi montani e campestri dal passaggio di uomini e animali”. Così recita il mio dizionario della lingua italiana Devoto Oli. E chi ha fatto un po’ di montagna sa benissimo che così come ci sono sentieri bellissimi e “comodi”, altrettanto ci sono sentieri orribili, pieni di pietre e salti che richiedono equilibrismi e acrobazie. Il sentiero ti porta a salire e scendere e richiede perfetta sincronia tra il passo e la respirazione, che mai come in questi casi diventa fondamentale per il buon andare del viandante.
Un po’ come nella vita. A volte occorre respirare a fondo e profondamente e rallentare il passo fino a una lentezza esasperante per poter andare avanti.
In quelle lunghe ore di cammino esaltante e faticoso, mi sono ritrovata più di una volta a ringraziare la salita, fatta qualche giorno prima, sul ghiacciaio del Castore, quota 4228, gruppo del Rosa.
Ascensione programmata da un anno, quando in punta al Gran Paradiso qualcuno – non ricordo chi – l’ha proposto e io mi sono ritrovata a pensare non proprio entusiasta:”Un altro 4000!!!”
Salita fatta in ricordo di Lia, appuntamento annuale, con vecchi e nuovi amici, che nei giorni precedenti mi ha dato qualche preoccupazione.
Non ero troppo convinta per il timore di non essere abbastanza allenata. E poi le previsioni erano proprio orribili. Sono stati giorni di telefonate con la guida Adriano – quest’anno Silvio ci ha abbandonato perché infortunato - con Marcello e tante con Ombretta. A lei ho confidato le mie ansie, la mia poca voglia di andare e lei mi ha rassicurato raccomandandomi però di non fare chili di conserva e litri di succhi di frutta il giorno prima! A quanto pare reggo meglio un 4000 se parto il più riposata possibile!
E alla fine il 9 agosto – dopo la rinuncia di Ombretta e Carla al Bianco – un gruppetto di noi è partito. Gruppo ridotto perché alcuni amici quest’anno – per motivi diversi – non sono venuti. In compenso c’erano 3 new entry: Beniamino, Gianni amico di Ombretta e Luca mio cugino. E poi Carla, la nostra olandese un po’ italiana, Ombretta e Marcello lo stambecco del gruppo.
Sette come i sette nani guidati anziché da Biancaneve dalla brava guida Adriano che, giusto per creare un po’ di suspense, ha pensato bene di dimenticare lo zaino a casa, con conseguente ritardo di 2 ore sull’orario di partenza.
Alla fine riusciamo a prendere la funivia + seggiovia da Stafal alle 12.15 e a partire dal Colle Bettaforca alle 12.45. Il tempo non è granché: c’è nebbia ma almeno non patiamo il caldo. E – cosa non indifferente – non vediamo i vari strapiombi, burroni e dirupi che si aprono sotto i nostri piedi, nell’ultimo tratto di cresta aerea che ci porta al Quintino Sella al Felik, quota 3585, in 3 ore e mezza.
Io salgo decisamente bene, senza nessun problema di fiato o altro. Sono preoccupata per Carla che vedo rimanere indietro senza fiato, finché Adriano decide di legarla e tirarla su quasi di peso. Se tribola così tanto come farà domani? Di sicuro paga il prezzo del mancato acclimatamento, perché in quanto ad allenamento quella donna è incredibile!
Arriviamo al rifugio immerso nella nebbia alle 16.15. C’è molta gente. Il rifugio è grande, avrà almeno 150 posti letto. Il nostro gruppo viene messo nel secondo turno della cena alle 20. Ci prendiamo una caraffa di the caldo e mangiamo qualcosa. Beniamino è di un pallore mortale: lo guardo con preoccupazione materna e cerco di tenere a bada le mie ansie. E’ vero che ha fatto il trekking nel Gran Paradiso, ma è anche vero che questo è il suo primo 4000!
In attesa della cena decidiamo di coricarci per riposarci un po’. Tanto fuori non si riesce a stare per il freddo e la nebbia. Siamo tutti insieme in una camerata da 10 posti, di cui 2 sono al terzo piano, dove si sistema la nostra agile guida.
Sento freddo e mi copro con due coperte tenendomi addosso tutto quello che ho, comprese le doppie calze. Non dormo ma mi godo il riposo dato dalla posizione orizzontale e dagli occhi chiusi. Passiamo così più di due ore in uno stato di torpore e rincoglionimento generale. Qualcuno si alza. Qualcuno dorme. Qualcuno torna a letto. Fuori è uscito un sole splendido ma anche un vento gelido che mi fa passare ogni voglia di stare all’aperto.
Mi porto nel cuore uno di quei momenti speciali che a volte capitano nelle nostre vite: un gruppo di noi, coricati sulle tavolate dei letti, a fare i pirla, dicendo scemenze e ridendo come babbei. Dei veri “balenghi” direbbe la Littizzetto!
Un momento speciale di grande intimità, in cui sai che puoi dire qualsiasi cosa perché gli altri capiscono. Si ride, si scherza, forse si farnetica un po’… in fondo siamo a quasi 3600 metri e l’ossigeno un po’ scarseggia.
La cena passa liscia. Vedo occhi che sorridono, guance che si colorano grazie anche alla bottiglia di vino di Gianni! Carla mangia poco e Ombretta pure. Io invece mangio con appetito e mi prendo la mia bella aspirina che do anche a Ben e Carla.
Alle 22 siamo tutti coricati. La sveglia è fissata per le 4.30. Non mi aspetto di dormire – in rifugio non ci riesco mai – ma almeno di riposare. Sento il respiro degli altri – per fortuna nessuno russa – corpi che si spostano, pile che si accendono, movimenti vari. Effettivamente la notte è movimentata. A Gianni viene un forte mal di testa e Luca – povero – vomita due volte! Propino aspirina a tutti (faccio la sostituta del nostro mitico dott. Livio Perotti!) e alla fine riesco a dormire un paio d’ore.
Nonostante alcune facce davvero stravolte (l’unico a dormire come un sasso è stato Adriano, seguito a ruota da Beniamino che con i suoi 22 anni dorme ovunque!) il gruppo si mette in marcia, rassicurato dalla nostra guida con spiegazioni, che francamente mi perdo, su anidride carbonica, cervello e quota.
Vinciamo la palma del gruppo più lento del rifugio, perché solo alle 6.10 le due cordate si mettono in movimento, con qualche rimbrotto di Adriano che non ci conosce e secondo me si chiede con che gente è capitato!
Partiamo con le primissime luci del nuovo giorno e un vento freddo e forte. La giornata è splendida! C’è una luce meravigliosa e l’aria è tersa con una vista mozzafiato. Sento le gambe che iniziano a muoversi. La respirazione diventa un impegno e tutti miei sensi sono all’erta. Ho nelle orecchie le raccomandazioni della guida sull’uso della picca che mio malgrado mi propina e che, con disappunto di Beniamino, porterò in giro come un inutile accessorio, tranne nei posti davvero ripidi ed esposti. La salita inizia dolcemente e quando si fa più impegnativa ormai ho carburato bene e ho preso il passo. Sin dal giorno prima ho fatto mia quella che è diventata la “regola d’oro” di Adriano: sincronizzare l’espirazione con il carico di una delle due gambe, meglio quella a monte. Mi aiuta un sacco perché rimango concentrata sul passo e soprattutto mi sembra di avere un’arma efficace contro la fatica della respirazione su un 4000.
Il dislivello da compiere è poco meno di 700 metri, con un passaggio intermedio prima del colle Felik, impegnativo perché molto ripido, in cui occorre usare la picca con molta attenzione. Sarà perché la guida ci ha legato un po’ più distanti di quanto faceva Silvio, ma la salita in cordata non mi pesa come gli altri anni.
Quando arriviamo alla cresta finale, la parte più pericolosa della salita, mi accorgo di avere un rampone rotto. Non certo il posto ideale per stare senza ramponi! La guida mi sembra preoccupata ma io lo rassicuro: "Non preoccuparti! Mia figlia mi aiuta…” E’ così sarà.
Procediamo con mille cautele, tra le raffiche di vento che aumentano la percezione del pericolo, su questa cresta che definire “aerea” non rende giustizia.
Arriviamo in cima dopo 3 ore esatte di cammino. C’è troppo vento per cui dopo due foto un po’ raffazzonate con lo striscione, giriamo i tacchi e scendiamo. Non essendomi goduta molto il panorama in vetta apprezzo particolarmente la proposta di Luca di fermarci in un punto sottovento appena terminata la cresta.
Qui io e Beniamino ci facciamo fotografare con lo striscione “Ciao Lia”… solo noi due… sua madre e suo fratello maggiore che lei tanto ha amato.
Mi fermo e mi godo tutta quella magnificenza: il Bianco, il Gran Paradiso, tante vette splendide di cui non conosco il nome e, sullo sfondo, il Monviso.
Monviso che, come dice Adriano, sarà solo un ammasso di ciarpame che si sta sgretolando, ma che è sempre il “mio” Monviso la cui sola vista mi fa sentire a casa.
Ne approfitto per farmi “una dose” di latte condensato che tengo direttamente nella tasca della giacca vento e che è l’unica cosa che riesco a buttare giù quando sono affaticata e ho lo stomaco chiuso per la quota.
In un’ora e mezza scendiamo al rifugio, con Luca che apre la strada e Adriano per ultimo che fa sicura. C’è talmente tanto vento che le tracce delle molte persone salite e scese quel giorno, tra cui le nostre, sono state coperte dalla tormenta. Non si vede neanche il crepaccio che in salita era ben visibile.
Terminata la parte pericolosa Adriano ci propone di rifare una foto con lo striscione, gesto che apprezzo immensamente per la sensibilità che rivela. Ci mettiamo in posa, tenendo stretto quel piccolo pezzo di stoffa arancione con due sole parole “Ciao Lia”. Sullo sfondo il maestoso Monte Bianco e la picca di Luca alzata verso il cielo, in segno di trionfo e gioia. Siamo qua, ce l’abbiamo fatta e siamo un po’ più vicini a Te che abiti in questo cielo così azzurro e terso da fare male agli occhi.
L’ultimo pezzo è un po’ una sofferenza per quella pipì che da un po’ mi scappa e che, a differenza dei signori uomini, non posso fare imbragata come sono e coperta da diversi strati!
Poco dopo le 11 arriviamo al rifugio. Ci si sveste, ci si cambia, si mangia qualcosa, si risistemano gli zaini e ci si prepara per un attimo di raccoglimento, che caratterizza così bene tutte le nostre ascensioni.
Un momento speciale in cui ciascuno di noi apre il suo cuore agli altri, un momento denso di emozione e commozione.
In particolare mi colpiscono le parole di Adriano che dice della nostra ascensione essere stata una salita “con” Lia: anche io la sento così… da sempre. Tutti parliamo, tutti comunichiamo quello che abbiamo nel cuore, un po’ isolati, stretti nella nostra bolla speciale che ci rende un gruppo così particolare.
Alla fine ci tocca proprio andare e affrontare tutto quel sentiero molto esposto, senza però la nebbia a coprire i vuoti sottostanti. Siamo tutti abbastanza stanchi e desiderosi di arrivare alle auto. Si chiacchiera, si ride, qualcuno sta in silenzio e tribola per la discesa (povere ginocchia… vero Gianni?) e ci si gode quel panorama incredibile, sintesi di una giornata meravigliosa.
Cosa faremo il prossimo anno? Non si sa ancora ma è bello che il gruppo se lo chieda, perché vuol dire che questa cosa ci piace così tanto che la vogliamo ancora ripetere.
Qualsiasi cosa sarà andrà bene perché saranno le nostre singole forze unite in un sogno comune. E mai come in questo caso l’unione fa la forza.
Di questa esperienza mi rimangono tante immagini, fotografie interiori che mi porto nel cuore. .
Prima di tutto aver fatto questa ascensione con mio figlio Beniamino che per tutto il tempo mi ha protetto facendomi culi perché, a suo parere la corda non era abbastanza tesa! Lui era al suo primo 4000… io al mio quarto… ma l’esperto era lui!!
Si è coronato un sogno: ho avuto la prova di essere riuscita a trasmettere a mio figlio l’amore smisurato che sento per la montagna. Grazie Ben per esserci stato ed esserci stato col tuo modo così speciale.
Aver fatto questa salita di nuovo con Ombretta e Carla: quest’anno abbiamo festeggiato 30 anni di amicizia!! Un grande dono di cui sono profondamente grata. Grandi donne queste mie amiche: vi voglio bene!
La presenza di Marcello, lo stambecco “anziano” del gruppo col cuore più giovane di tutti noi messi insieme: ogni volta Marcello mi colpisce la tua gioia di vivere che si trasforma in voglia di crescere e di imparare. Continua così!
La presenza di Gianni, amico silenzioso eppure così presente, che ha fatto la salita senza aver dormito: un tenace professionista della montagna, i cui colori mi porto nel cuore… soprattutto quelli dei calzettoni!!!
Luca, cugino mio, sono contenta che ci sia stato! Mi spiace che sia stato male ma non avevo dubbi sulla tua vena alpinistica. Eri un pezzo della mia famiglia d’origine presente su quel ghiacciaio.
Adriano, che ricordo correre sul ghiacciaio come una gazzella, all’inseguimento del guanto di Marcello portato via dal forte vento. A un certo punto quando è scomparso dietro la china, ho pensato:” Ciao guida…” E invece è tornato lui ed è tornato il guanto!!
Grazie per esserti messo in gioco così bene e per quello che ci hai insegnato.
E poi gli amici assenti… Livio, l’altro Marcello, Adamo. Giorgio, Roberto…e tutti quelli che non hanno potuto esserci ma erano presenti col pensiero e il sostegno del loro affetto.
E in ultimo, ma non ultima, Lia che ci ha protetto in modo particolare tra ramponi rotti, guanti che volavano, pantaloni dimenticati, vomiti, emicranie, mancanza di acclimatamento e pericoli vari…
Lia che è sempre stata con noi, per un po’ così vicini al Suo cielo. Lia… il nostro angelo…
Un gruppo di amici che sale in cordata, respirando un’aria rarefatta, sotto un vento sferzante, facendo la medesima fatica per uno scopo comune: trasformare un Dolore immenso in un Amore altrettanto immenso per la Vita e l’Umanità.
Questo, alla fine, è per me la vera essenza del nostro andare in montagna… per Lia… e con Lia.
Cilla
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