Ora che è iniziato l’autunno e si è conclusa la mia bella e intensa stagione calda prendo volentieri (metaforicamente perché scrivo al computer…) la penna in mano per tornare un po’ a questa esperienza che così tanto ha caratterizzato la mia estate.
L’ascensione al Bianco così maestoso e gigantesco, tanto che non ho mai pensato di andarci, nemmeno nei più reconditi dei miei pensieri.
Della serie: non fa per me, troppo da esperti, troppo difficile, troppo pericoloso…
Ricordo che quando Carla l’anno scorso ha chiesto a Silvio, monsieur la guide, informazioni su questa salita ho pensato: va pure che questa cosa proprio non mi tange, non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di venire con te!
Eppure… mai dire mai!
A fine primavera mi scrive Carla dalla lontana Olanda proponendomi di aggregarmi alla spedizione che lei comunque aveva deciso di fare da sola, sostenendone i costi e tutti i preparativi necessari a un’impresa del genere. Non dimentichiamo che lei abita 5 metri sotto il livello del mare e il Bianco misura 4810 metri! Proprio a questo scopo, per fare acclimatare Carla, con Ombretta decidiamo di fare il giro del Viso in modo da farle sperimentare un po’ di altitudine… ma questa è un’altra storia.
Che cosa mi ha spinto ad accettare? Che cosa ha fatto sì che l’interruttore girato su OFF facesse un giro completo per finire su ON? Non lo so. E’ stato un pensiero dapprima sottile, fragile e impalpabile che si è intrufolato nella mia mente, sotto forma di remota possibilità. Poi è diventato soppesarne i pro e i contro, valutando rischi e aspetti positivi, mettendo sulla bilancia i miei limiti e le mie risorse, chiedendo consiglio a chi questa montagna l’aveva già scalata. Alla fine è diventato un: perché no? Perché non cogliere al volo quest’opportunità che la Vita mi sta offrendo grazie alla generosità di Carla e al suo desiderio di condividere con me quest’esperienza? In fondo ho 46 anni ( e non sto ringiovanendo…), sono ben allenata e decisamente in forma… se non lo faccio ora mi sa che non lo faccio più. Ed è così che nel mio programma estivo, già ben nutrito e zeppo di cose, si è aggiunta la voce: MONTEBIANCO.
Naturalmente PER LIA! Perché con Carla decidiamo di comune accordo di dedicare anche quest’ascensione alla memoria di Lia che tanto amava la montagna. E a me, sua mamma, l’idea di salire così in alto (caspita… quasi 5000 metri!) sembra mi dia la possibilità di esserle più vicina, di essere più vicina a quel cielo azzurro e limpido in cui ora sta. E naturalmente non verrò delusa. Nessuno di noi verrà deluso.
Dopo mille preparativi e contatti via mail con Carla e telefonate con Silvio, la guida ufficiale della nostra compagnia di bandiera, arriva finalmente la vigilia della partenza.
Domani 12 agosto alle 6 partiamo da Saluzzo alla volta di Chamonix. Carla, che è in Italia dal 3 agosto e ho già visto in occasione del giro di Viso, è arrivata da me col treno delle 18.30, direttamente dalla casa di Ombretta dove ha passato gli ultimi giorni. La vedo scendere dal treno con Beniamino, anche lui in arrivo sullo stesso treno, leggera e baldanzosa. Davvero sprizza energia e felicità! Ci abbracciamo forte e sento in me la gratitudine per questo legame che dura ormai da 27 anni e che nonostante lunghi anni di silenzio è maturato, si è rinforzato e arricchito.
Siamo un po’ preoccupate: le previsioni per i due giorni successivi sono pessime. Mi sento telefonicamente con Silvio e decidiamo di incontrarci dopo cena per fare il punto della situazione. Silvio ha passato le ultime ore a controllare tutti i siti meteo e sono parecchio discordanti tra loro: c’è molta instabilità. L’unica cosa sicura è che non farà per niente bello!
Lui ci dice chiaramente che sarebbe meglio rimandare di qualche giorno perché con queste previsioni rischiamo di partire, arrivare a Chamonix e tornare indietro. Rimandare è un opzione non possibile perché Carla deve rientrare il 19 e Silvio ha degli altri impegni di lavoro. Carla ed io siamo sulla stessa lunghezza d’onda: non ci interessa la meta finale, ci vogliamo godere il viaggio nei suoi minimi particolari e per fare questo non dobbiamo avere paura. Silvio ci garantisce che non ci metteremo in situazioni di pericolo. La fiducia che ho in quest’uomo che conosco fin da bambina è grande, e sento che anche Carla è tranquilla, per cui decidiamo di partire. E poi si vedrà!
Torniamo a casa che è già abbastanza tardi e prima che prepariamo gli zaini con tutto il necessario per l’ascesa (tanta roba calda perché è previsto un freddo becco!), e io sistemi le ultime melanzane nei barattoli (ebbene si… ho passato l’estate a riempire la cantina!) alla fine vado a dormire che è molto tardi. Ringraziando dormo, poche ore, ma bene: riposo, senza interruzioni e senza nervosismi pre-gita, come spesso mi accade.
Il mattino del 12 agosto alle 5.20 suona la sveglia. Inizia così il percorso che ci porterà al Bianco o forse no. Vedremo.
Il tempo non è granché, nuvoloso ma almeno non piove. Facciamo colazione con Fiocco che ci gira in mezzo ai piedi: ha capito che c’è qualcosa d’interessante nell’aria e vuole partecipare anche lui!
Alle 6.15 arriva Silvio e partiamo con la mia auto alla volta della Valle d’Aosta. Direzione: traforo del Bianco e Chamonix. In Valle inizia a piovere e il tempo è decisamente brutto: sembra novembre, non si vede nulla delle belle montagne che costeggiano l’autostrada e c’è pure un po’ di nebbia. Davvero non male come inizio. Arriviamo al tunnel lo attraversiamo e verso le 9 arriviamo a Chamonix: il tempo tiene. Guardiamo le previsioni del posto, sempre molto attendibili e sembra che nel pomeriggio migliori un po’. Decidiamo di fare il passo successivo: prendere la funivia per andare a prendere il trenino che ci porterà all’attacco del sentiero.
Quando scendiamo dalla cabina piove abbastanza forte e non c’è da stare allegri. Aspettiamo al riparo che arrivi il trenino con un punto interrogativo sul volto: cosa facciamo con un tempo così?
La prima sorpresa che abbiamo è la scoperta che il trenino non arriva a destinazione ma si ferma 200 metri sotto. Silvio non ne sa nulla e l’unica cosa che capiamo è che c’è un rischio frana.
Scopriremo successivamente che c’è un rischio di esondazione del lago sotterraneo il ghiacciaio del Tete Rousse di 65 mila metri cubi di capacità, che già nel 1892 ha inondato la sottostante valle di Saint Gervaix uccidendo 200 persone.
Questo per noi significa 200 metri in più di dislivello che da 1500 passano a 1700! Io e Carla non battiamo ciglio, Silvio è rammaricato di non averlo saputo prima (ci faceva partire alle 5 di sicuro…) e piove a dirotto. Scesi dal trenino ci ripariamo in un vagone abbandonato e aspettiamo di vedere come evolve. Sono le 11 del mattino, ci diamo tempo fino a mezzogiorno: se migliora un po’ si parte, diversamente si girano i tacchi e si torna a casa. Silvio telefona anche al rifugio Gouter per sapere quanta neve sta scendendo, perché se è troppa impedisce la salita del giorno dopo sul ghiacciaio, ma su questo fronte le notizie sono rassicuranti. Mentre aspettiamo mangiamo qualcosa, chiacchieriamo piacevolmente e conosciamo una ragazza polacca che è appena arrivata dalla punta: irradia felicità (e mi fa un po’ invidia…) anche se non ha visto nulla perché c’era un nebbione dell’accidenti e non ha potuto neanche fare una foto perché ha lasciato la macchina foto all’esterno che si è ghiacciata a causa delle basse temperature! Mi faccio un appunto mentale di mettere la mia sotto la giacca a vento per non incorrere nello stesso errore… meno male che l’ha detto perché non ci avrei proprio pensato.
In quell’ora d’attesa mi sento un po’ divisa tra la voglia di andare e provare a fare questa cosa che mi fa un po’ paura e la nostalgia che ho della mia famiglia che ho lasciato a casa in trepida attesa: finora ho cercato di dare notizie a Enzo in tempo reale, per non farlo preoccupare troppo, anche perché siamo partite senza sapere cosa sarebbe successo. Sento Enzo partecipe e vicino e sono grata alla vita per questo mio compagno da 23 anni, taciturno e silenzioso ma sempre presente, con cui ho condiviso gioie e grandissimi dolori, nella fatica di una quotidianità che contrassegna una strada in salita, ma con panorami bellissimi.
Alle 11.50 smette di piovere e decidiamo di partire. Io per precauzione indosso la mantella e faccio bene perché poco dopo ricomincia a piovere: la pioggia ci accompagnerà per buona parte del cammino che porta al Tete Rousse, la nostra prossima destinazione. Per ora cerchiamo di arrivare lì. E devo dire che, con questo tempo, mi sembra già tanto!
I primi 200 metri li facciamo sulla massicciata del binario, camminando su quelle pietre rotonde e antipatiche. Siamo partiti da quota 2100 e dobbiamo arrivare a 3200: 1100 metri di dislivello che compiamo in 3 ore e un quarto. Arriviamo al rifugio poco dopo le 15, con un po’ di sole che fa capolino dalle molte nubi che ci sono nel cielo. Sul sentiero abbiamo incontrato molta gente che scende, alcuni col muso lungo, delusi per non aver potuto fare la salita a causa delle condizioni troppo rigide del mattino. Io e Carla spesso ci guardiamo e non diciamo nulla: chissà cosa riserva la sorte a noi povere tapine?
Al rifugio decidiamo di mangiare uno spuntino veloce e di tentare la salita al Gouter che si staglia, puntino piccolo ma maestoso, sulla cengia di roccia 600 metri sopra le nostre teste. Io dico a Silvio molto sinceramente che fare quella salita alle 3 di notte col buio non mi attrae per nulla: meglio adesso che c’è la luce e il tempo sembra tenere. In realtà terrà per poco perché inizierà a nevicare mentre ci arrampichiamo sull’ultimo tratto. Questa è la parte tecnica della salita: ci imbraghiamo, leghiamo, mettiamo il casco e, dove necessario, anche i ramponi. Procediamo bene, spediti e per la prima ora mi diverto proprio, la seconda inizia a essere un po’ pesante, l’ultima mezz’ora il rifugio sembra non arrivare mai! Continuo a vederlo sulla mia testa mentre arrampico dietro Carla in mezzo alla neve e la fatica inizia a farsi sentire. Nonostante questo, procedo decisa e contenta di questa cosa che sto facendo e che mi sta regalando tante emozioni, compresa tanta paura quando Silvio ci esorta a correre per passare il più fretta possibile il canalino che definisce il punto più pericoloso di tutta la salita perché scarica pietre. Io e Carla arriviamo dall’altra parte con la lingua fuori e il cuore che batte a mille, per la strizza e per aver accelerato il passo su quei passaggi non proprio agevoli.
In ogni modo alle 18.15 dopo 2 ore e mezza di salita, siamo al Gouter. Abbiamo percorso 1700 metri di dislivello in 5 ore e 45’. Siamo molto felici e per me questo è già un ottimo risultato anche se non dovessimo salire in punta l’indomani. Entriamo nel rifugio che troviamo accogliente e parecchio abitato. Mentre Silvio fa la coda per registrarci e io mi tolgo la roba bagnata di dosso, vedo Carla che ancora un po’ mi sviene: è decisamente stravolta ma è questione di un attimo e poi si riprende. Nel frattempo ricevo la gradita telefonata di Ombretta la quale è preoccupatissima e vuole sapere come stiamo e soprattutto, dove siamo. In pianura c’è un tempo orribile e non pensava mai più fossimo arrivate fino ai 3817 metri del rifugio. E’ una gioia sentirla e le comunico la mia felicità di essere arrivata lì, avendo percorso la parte più difficile del percorso. E anche la più lunga.
Il giorno dopo ci aspettano 1000 metri di dislivello, tutto su ghiacciaio, che lambisce il rifugio da dietro. E’ veramente pazzesca la posizione di questo rifugio che si affaccia sulla roccia ed è incalzato dal ghiacciaio, per cui i gestori si riforniscono di neve direttamente dalla finestra della cucina! Il rifugio è senz’acqua e non deve essere facile viverci tutta l’estate accudendo ai bisogni delle molte persone che transitano. Il primo segnale di questa particolarità sta nel fatto che l’acqua si acquista e costa la bellezza di 5€ alla bottiglia! Il trasporto avviene per elicottero e costa uno sproposito.
Appena registrati ci danno subito la cena che mangiamo al tavolo con una coppia: lei belga e lui … olandese! Questo è davvero incredibile!
Siamo molto stanche e io non vedo l’ora di coricarmi… meno male che alle 20 è previsto il silenzio per permettere alle persone di riposare qualche ore visto che la sveglia è alle 2! Sigh…
La cena scorre piacevole e … molto francese! Il menù prevede un pezzetto di formaggio accompagnato da nocciole (niente pane, a questa altezza è un lusso!), una zuppa di verdura (un po’ acquosa per la verità ma gradita…) e un secondo a base di pollo al curry e … spaghetti molto scotti da unire alla salsa e alla carne, e un pezzo di torta. Decido che non ho molta fame ma mangio lo stesso, perché ho mangiato poco nella giornata e ho bisogno di energie per la salita della notte successiva.
Salita che pensiamo di provare a fare: le previsioni appese in rifugio non sono granché ma un po’ meglio di come sembrava.
Dopo cena decidiamo di andare subito a letto. Siamo entrambe molto stanche e io personalmente non vedo l’ora di distendere le mie stanche membra. Sono tranquilla e senza ansie particolari e penso proprio che dormirò come un sasso (mai previsione fu più sbagliata!) Dopo una pipì veloce nei servizi del rifugio, di cui tralascio ogni descrizione (basta dirvi che sono a secco, senza acqua…), scelgo di non lavarmi i denti, cosa che mi dispiace molto, ma sono stanca e fa freddo e l’idea di lavarmi con la preziosa acqua che mi serve per bere, mi fa soprassedere. Nella camerata con 40 letti (solo per noi comuni alpinisti, perché Silvio e colleghi sono alloggiati nella chambre guide), c’è qualche posto libero e la maggior parte delle persone sta già dormendo. La camerata è tutta in legno con i tavolacci a due piani e ha sul fondo una bella finestra da cui arriva l’incantevole luce del tramonto.
L’orario ideale di arrivo al rifugio è attorno alle tre del pomeriggio in modo da avere il tempo di fare un sonnellino prima della cena e soprattutto di acclimatarsi. Ore preziose che a me mancheranno e che, probabilmente, contribuiranno insieme alla stanchezza, al mio mal di quota.
Il letto preparato col mio sacco lenzuolo e quattro calde coperte del rifugio mi sembra un lusso! Dopo aver dormito in tenda nel giro di Viso con un freddo becco, qui mi sembra di essere un pisello nel baccello! Io e Carla ci corichiamo vicine alle 20.15 e io aspetto con pazienza che arrivi il sonno. I pensieri scorrono sullo sfondo… rivedo la giornata e penso all’ascensione. Sono tranquilla e – dico ora – ignara di quello che ci aspetta. Mi sembra che il peggio sia passato: abbiamo fatto 1700 metri di dislivello in neanche 6 ore, arrampicato sotto la neve e ora non ci rimangono che 1000 metri di ghiacciaio senza difficoltà tecniche particolari. Che sarà mai? Non potevo sbagliarmi di più!
Comunque le ore passano e io galleggio in uno stato di sonno-veglia (di quelli che alla fine ti alzi più stanco di prima…) come spesso capita nei rifugi, tra un russare, una pila che si accende e qualcuno che si alza per andare in bagno. Cerco di stare tranquilla e godermi il tepore delle coperte. Accanto a me Carla dorme tranquilla e un po’ la invidio. Siamo a 3817 metri (come dormire in punta a Viso) e lei respira tranquilla: si vede che le due aspirine che Silvio ci ha dato sono servite. Io invece mi ritrovo sveglia all’una, un po’ rimbambita, senza aver dormito un granché ad ascoltare i rumori delle prime persone che si alzano. Deduco che le condizioni meteo sono buone perché diversamente tornerebbero a dormire. La nostra sveglia è alle due seguita da una colazione che fatico a mandare giù, tanto ho lo stomaco chiuso. Mi sforzo di mangiare una fetta con la marmellata e un po’ di the. Giusto per scaldarmi. Fuori ci sono almeno 10° sotto zero e so che mi aspetta un qualcosa che richiederà tutta la mia energia. Il tempo sembra buono, a tratti si vedono le stelle, ma c’è anche un po’ di foschia. Un pensiero va alle stelle cadenti che proprio questa notte dovrebbero vedersi molto bene… chissà se ne vedremo qualcuna?
Ci prepariamo, vestendoci accuratamente, mettendo strato su strato: alla fine mi sembra di essere un palombaro pronto per un’immersione! Effettivamente nell’uscire dal rifugio la sensazione è proprio quella di immergersi in un universo buio, ovattato e freddo dove tutti i sensi sono all’erta, in uno stato di torpore dovuta all’ora incredibile della notte, ma anche di massima attenzione per ciò che ci stiamo apprestando a fare. Vedo che Silvio se la prende comoda nei preparativi e capirò dopo che è molto meglio salire dietro ad altri che battono la traccia: fuori ci sono 20 centimetri di neve fresca, caduta nelle ore precedenti (quella che abbiamo presa sulla testa mentre salivamo…) e questo rende la salita più faticosa. Alle 3.10 usciamo dal rifugio e attacchiamo la salita che si inerpica appena dietro di esso. Fin da subito mi colpisce la pendenza che è davvero forte, ma spero in cuor mio che poi molli un po’. Cammino e cerco di prendere un passo e un ritmo come sempre faccio in montagna, lo stesso passo e ritmo che una volta ingranati ti permettono di camminare per ore senza sentire la fatica, e di vivere la sensazione bellissima di avere dei pistoni al posto delle gambe che pompano energia e ti trasportano in alto, sempre più su. Ogni tanto alzo la testa e nel buio assoluto vedo delle lucine (sembrano lucciole che ballano nell’aria…), che si muovono molto più in alto delle nostre teste. Sono le luci delle frontali delle cordate che ci precedono e a me viene male nel vedere quanto sono in alto… “Ma dobbiamo arrivare anche noi lassù?!”
Fatico e arranco, arranco e ansimo su questa pendenza che mi sembra durissima. Cerco di prendere il passo, di dare una disciplina al mio cervello che sta iniziando a dare strani segnali. Combatterò tutta la notte con la mia testa che continuerà a dirmi: Dormi! Riposati! Cerca un letto e sdraiati! Anzi…fai che coricarti qui sul ghiacciaio, basta che mi fai dormire!
Per un po’ mi sembra che vada meglio, anche se la pendenza è assurda e ogni volta che alzo una gamba mi sembra di dover sollevare dieci chili di piombo! Mi manca però sempre più il fiato. Tengo duro anche perché Silvio ha detto che poi c’è un po’ di piano su cui possiamo recuperare. Effettivamente vedo che le lucine a un certo punto scompaiono alla vista, segno che hanno scollinato. Quando arriviamo finalmente anche noi a questo pianoro che discende anche un po’ e io mi accorgo di continuare ad avere un fiatone dell’accidenti… capisco di avere un problema. E anche grosso! Non riesco a recuperare, la stanchezza è sempre più forte, il peso delle gambe una zavorra e io vorrei dormire lì.
Abbiamo fatto 500 metri di dislivello e siamo a metà della salita: mai una notte mi è sembrata tanto eterna! La frontale illumina il passo successivo, su cui cerco di concentrarmi con grande disciplina, facendo appello a tutte le mie risorse per non mollare. E non alzo la testa per non spaventarmi alla vista della parete che mi aspetta. Altro che vedere le stelle cadenti! Non ho neanche la forza di alzare le braccia per sistemarmi il passamontagna che ogni tanto si sposta a causa dell’elastico della frontale.
Il tempo però è buono e questo è un grande aiuto oltreché una gradita sorpresa. Mentre avanzo con fatica e combatto una dura battaglia con me stessa per non mollare, chiedo aiuto a Lia che sento vicina a me; ho preparato uno striscione con Rebecca e Simone, per salutarla e ci tengo davvero tanto ad arrivare in cima. Già mi pregusto la gioia di quel momento…
Ad un certo punto però dalla mia bocca esce una richiesta d’aiuto ma non sono io a parlare… è qualcun’altra che dentro di me dice di non farcela più, che ha bisogno di fermarsi anche solo per un minuto per recuperare il fiato che le scappa da tutte le parti. Parla con la voce impastata come se fosse ubriaca e si mette anche a piangere appoggiando la testa sulla spalla di Carla: la tristezza le attanaglia il cuore e la mente.
Silvio, a questo punto, si rende conto che qualcosa non va e che ho qualche problema con l’altezza. Dopo avermi dato dei carboidrati liquidi (non riuscirei a buttare giù niente di solido neanche sotto tortura…) ripartiamo ma ormai è uno stillicidio. Dopo il Vallò (dove purtroppo non posso fermarmi a dormire perché troppo freddo) c’è una parete la cui pendenza mi spaventa a morte. Vedo i puntini neri delle persone davanti a noi che sono sempre ferme e procedono molto lentamente. Mi sembra che anche loro stiano tribolando parecchio. Unica eccezione sono le due figlie del gestore del rifugio che ci sorpassano tutte sorridenti e leggiadre, senza il minimo fiatone, come se fossero a passeggio sulla collina di Saluzzo! In quel momento mi fanno un’invidia e anche un po’ di rabbia: ma come cavolo fanno? Certo che vivere tutta l’estate a 3800 metri forse fa la differenza.
Nel frattempo è sorta l’alba e il nuovo giorno arriva in tutto il suo splendore regalandoci uno spettacolo incredibile: sotto di noi un mare di nuvole e sopra un cielo azzurro terso e limpido come non mai! E chi lo avrebbe mai immaginato? A Silvio inizia a venire il dubbio che un angelo di nome Lia centri con tutto questo!
Attacchiamo la ripidissima salita sopra il Vallò (davvero non posso mollare per Carla…) ma ogni pochi passi chiedo di fermarmi. Vedo Carla preoccupata che però non dice nulla e non ho più la forza e la lucidità di interloquire con nessuno. Silvio mi invita a tornare indietro. Io non voglio fare questo a Carla che sta salendo benissimo. Propongo di rientrare da sola e Silvio mi chiede se sono matta: potrei scivolare e cadere in un crepaccio e non mi troverebbero più. Aspettarli al Vallò è da escludere perché fa talmente freddo che mi congelerei.
Riprendiamo. Un passo dopo l’altro. Cerco di tenere duro ma devo venire a patti col fatto che sto patendo la quota e non ce la faccio più.
Non ho mal di testa, vertigini, nausea o altro ma non posso tirare oltre perché potrebbe diventare pericoloso.
E molto a malincuore mollo.
Sono le 6.40, abbiamo camminato tre ore e mezzo coprendo 700 metri di dislivello, siamo a quota 4500 metri e mancano 300 metri alla punta che quasi tocchiamo con la mano!
Trecento metri che mi sembrano trecento chilometri…
Sono talmente sfatta e confusa che quando decidiamo di girare indietro inciampo e scivolo, cacciando un urlo di terrore. La pendenza è fortissima e se non fosse per Silvio che mi tiene con la corda scivolerei fino in fondo dal Vallò: probabilmente niente di catastrofico ma non molto piacevole come esperienza. Facendo appello a tutte le mie forze mi rimetto in piedi e iniziamo la discesa. Continuo a chiedere scusa a Carla: sono mortificata e terribilmente dispiaciuta per averle impedito di arrivare in cima. Ma lei con il suo solito spirito libero e leggiadro mi dice sorridendo: “ Che me frega? La punta è solo lì e sul Bianco ci sono salita! Io sono contenta così, torniamo pure indietro” E sento che è sincera, che davvero non le dispiace, che sono più importante io dell’arrivo in punta. Grazie Carla perché tanti non l’avrebbero presa così. Sei unica!
Al Vallò facciamo la foto con lo striscione che dice “Ciao Lia!” e io sono un po’ triste per non poterla fare in punta, ma la mia mente è talmente annebbiata che quasi non me ne rendo conto. Nel mio cuore ricordo anche Umberto, il figlio della mia amica Anna, morto sulle montagne della Nuova Zelanda… era una promessa, un patto tra madri a cui è stato strappato un pezzo di vita.
Man mano che procediamo nella discesa mi sembra di stare meglio, ma sono davvero spossata. Me ne accorgo perché quando c’è da salire un po’, ma davvero poco, ho un fiatone terribile e le gambe come macigni. La discesa mi sembra eterna, nonostante il panorama mozzafiato di una bellezza abbagliante e il fatto che Silvio, dove possibile, ci faccia tagliare i pendii.
Finalmente in due ore siamo al rifugio dove ci rifocilliamo un attimo e ho la gioia di ricevere un messaggio di Mavi che fa il tifo per noi e la telefonata di Enzo che vuole avere notizie. Dopo questa breve sosta ci rimettiamo i ramponi e ci apprestiamo a scendere al Tete Rousse, passando per quei 600 metri di roccia che oggi hanno una bella spolverata di neve fresca e che faranno imprecare sia me che Carla, rendendo più difficoltosa la discesa. Siamo stanche ed è facile farsi male: più di una volta inciampiamo nei ramponi e meno male che c’è Silvio che fa sicurezza.
Anche questa discesa sembra eterna ma anche lei arriva alla fine: in due ore siamo al Tete Rousse che però oltrepassiamo tagliando dritto sul ghiacciaio che ci porta dritto al sentiero, dove finalmente possiamo svestirci e posare caschetto, imbrago, corda e ramponi. Che liberazione!
Siamo alla soglie delle nuvole che abbiamo visto dall’alto. Da qui in poi il tempo è brutto e scendiamo su questo sentiero che in altre due ore ci porta alla fermata del trenino. Inutile dire che anche questa è stata lunga, in particolare gli ultimi 200 metri sulla massicciata della ferrovia dove Carla scivola un paio di volte.
Ma alla fine arriviamo. Ed esce anche il sole.
Siamo in piedi dalle due di stanotte e abbiamo camminato nove ore e mezza, percorrendo un dislivello di 700 metri in salita e 2700 in discesa.
Mentre aspettiamo il trenino che ci riporterà alla funivia, Carla e Silvio si fanno la loro birretta e io ritrovo la gioia di mettermi i miei amati pantaloncini corti, godendomi il bel sole che fa capolino dalle nuvole.
Sono contenta e soddisfatta. Ho bisogno di tempo per elaborare quanto è successo ma so già che è stata l’esperienza alpinistica più dura che abbia mai vissuto. Ci metterò una settimana per recuperare la stanchezza e tutte le notti sognerò di me che arranco su montagne di tutti i tipi!
Mi rimane la gratitudine.
Verso Carla che mi ha invitata ad accompagnarla dandomi la possibilità di vivere un’esperienza incredibile. Grazie anche per la bella sintonia creatasi tra noi, nutrita di silenzi e sguardi e che non necessitava di parole alcune.
Verso Silvio, sempre più monsieur la guide… vero signore della montagna, che ci ha condotto con perizia e tanta tanta pazienza sulle varie strade che conducono al Bianco e che, quando ho chiesto di poter dormire sul ghiacciaio e parlavo con la voce impastata, non ha pensato che fossi pazza e ubriaca, ma ha capito che stavo avendo qualche problema con l’altitudine!
Verso tutti gli amici che ci hanno sostenuto e pensato, che hanno pregato per noi e ci hanno accompagnato col pensiero e col cuore in quest’impresa.
Verso me stessa. Per essere la testona che sono. Per non aver avuto paura di avere paura. E per avere avuto il coraggio di provare, la tenacia di mettercela tutta e l’umiltà di arrendermi di fronte all’evidenza del mio limite.
E naturalmente verso Lia che con la sua presenza silenziosa e piena d’amore mi sta spronando ad andare avanti ogni giorno e a vivere la vita pienamente e fino in fondo. Fino all’ultima goccia.