SUL CAMMINO CON LIA...
(Agosto - Settembre 2015)
Cosa portare nello zaino per un viaggio di oltre un mese in cui ogni giorno si cammina tra le sei e le dieci ore? Ogni singolo indumento, ogni oggetto deve passare al vaglio di una decisione che sembra quasi drastica: mi può veramente servire? Dalla fatica del distacco si scopre quanto la nostra immagine di benessere sia legata alle cose che potremo avere a disposizione. Fare lo zaino è il primo passo del pellegrinaggio verso la profondità di sé, lasciando i pesi inutili che ci infliggiamo costantemente, che forse ci tolgono tempo ed energia per le uniche cose che non dovremmo lasciare a casa: orecchie per ascoltare con attenzione noi stessi e gli altri, occhi per vedere il mondo che si dischiude nuovo ad ogni passo, parole per accompagnare, domande per cercare insieme la strada. Se ci pensiamo, quello che veramente ci può servire è già con noi sempre, solo che raramente lo usiamo con la preziosità di quando diventa l’unico mezzo per entrare in contatto con la realtà e le persone.
Nei primi giorni di cammino, un pellegrino mi ha detto che il peso dello zaino è direttamente proporzionale alla quantità delle nostre paure, che ci portiamo dietro anche nelle cose che servirebbero per proteggerci. Ma sulla strada non c’è protezione sicura, quello che ci aspetta al prossimo orizzonte non è prevedibile e si impara a fidarsi del futuro senza tentare di controllarlo. Questo desideravo quando sono partita: affrontare senza difese il viaggio, rinunciare all’illusione di essere capaci di proteggerci da soli. Forse è solo quando diventiamo consapevoli che le sicurezze che abbiamo passato la vita a costruirci non sono che pallide difese e affrontiamo a viso aperto la vita, con le paure che porta inevitabilmente con sé, possiamo dire di essere veramente diventati umani. Di aver raggiunto l’essenza, dove c’è la sorgente nascosta della semplice e indifesa vita che scorre in noi. In fondo siamo esseri che affrontano nudi il viaggio della vita.
Così con alcuni di questi pensieri e con lo zaino in spalle, il 20 agosto sono partita da Saint Jean Pied-de-port: destinazione Santiago de Compostela, circa 800 km di strade verso ovest.
Entrata nel paesino medievale di Saint Jean ho avvertito immediatamente un cambio di atmosfera rispetto al mondo che avevo lasciato poche ore prima. Persone da ogni parte del pianeta, tutte con zaino e l’immancabile conchiglia, che si preparavano alla tappa del giorno dopo, la più dura dei Pirenei, su Roncisvalle. Bastano i primi passi nella bruma mattutina per far nascere complicità negli sguardi e nelle parole di chi si incontra sulla salita (che durerà per i 20 km successivi!). Fare amicizia sul cammino è la cosa più semplice del mondo. Così a fine giornata sono già in un gruppo di pellegrini e pellegrine che diventerà una specie di famiglia multietnica per le settimane successive. Sulla strada si impara a conoscersi, si impara ad affrontare insieme la fatica, a essere attenti alle difficoltà dell’altro, a condividere semplici momenti di gioia, a riconoscere l’altro anche dove si nasconde. Si impara a lasciare trasparire il meglio di sé e anche quello che a volte non vorremmo condividere con altri. A poco a poco si diventa una carovana con coloro che giorno dopo giorno si rincontrano alle prese con la stessa tappa e con le persone che si trovano negli ostelli; perciò le conoscenze si allargano e si diventa esperti in abilità altamente specifiche della specie del “pellegrino a piedi”, come associare senza errori gli zaini ai loro proprietari, ricordare i problemi fisici che ciascuno ha ed esattamente dove li ha. Il cammino è uno spaccato di mondo in cui si possono incontrare le persone più diverse: chi ha perso il lavoro e cerca di riprendere una nuova prospettiva per la propria vita, chi vuole fare una vacanza nativa, chi vuole ricevere un’ispirazione, chi cerca di prendersi un tempo per rielaborare le proprie ferite, chi ha voglia di scoprire il mondo, chi ha bisogno di vedere un po’ di bellezza, chi decide che è meglio partire per mettere alla prova il proprio corpo più che il proprio cuore. Da ciascuno si può imparare qualcosa e a ognuno si può lasciare qualcosa di sé, una parola, un interrogativo. “Sul cammino le persone ascoltano veramente”, mi dice un hospitalero durante un bellissimo dialogo sulla sua vita dedicata al servizio dei pellegrini.
Mentre si cammina, si scopre la nuova identità di pellegrino che ad un certo punto ci si sente cucita addosso: sì, perché siamo tutti un po’ nomadi dentro, viaggiamo dentro la nostra vita e nel mondo cercando qualcosa, che ci dia motivo di vivere. Il pellegrino è un errante, uno straniero in terra straniera, un’antichissima forma di vita che custodisce ancora una verità: si può camminare solo se si ha una meta, una motivazione che ci spinge. Poi ci sono i momenti in cui ci si smarrisce, ci si chiede se veramente la motivazione che avevamo è abbastanza forte per farci fare ancora un passo. Ma essere nomadi ha proprio questo vantaggio: non ci si ferma mai e se si va un po’ oltre… lo scenario cambia e ci offre nuovi appigli, l’importante è continuare a camminare. Magari la meta cambierà nel frattempo, ma spesso sarà più saggia della precedente.
Ancora, essere pellegrini ci fa scoprire che siamo esseri finiti e che non possiamo portare con noi tutto quello che vediamo e che sperimentiamo. Perderemo inevitabilmente qualcosa dei luoghi che attraversiamo, la memoria di quel colore, i dettagli del cielo in quel particolare momento, lo sguardo di un compagno, il suono del vento sul crinale di una collina, la solidità confortante di un campo arato, l’ombra di un sorriso sotto il sole cocente, le parole scambiate sotto un cielo stellato.
La memoria non può registrare tutto e sarà sicuramente intaccata dal tempo; ricordare è scegliere cosa salvare o trovare che qualcosa è stato salvato anche senza la nostra volontà. Così il pellegrino, che sente tutti i limiti della sua condizione, inizia a fare un’altra operazione: in un atteggiamento quasi di preghiera chiede ai luoghi che attraversa di custodire qualcosa delle sue memorie, quello che la sua mente non riuscirà a ritenere egli lo appende al ramo di un albero, a una nuvola, alla torre antica di un monastero. La sensazione diventa allora non più l’impoverimento di “perdere paesi” (come scriveva Pessoa), ma la ricchezza della disponibilità infinita del mondo che si presta a custodire qualcosa del nostro passaggio.
I paesaggi cambiano al ritmo dei giorni, dalle colline della Rioja alle distese bruciate della Meseta. Paesini abbarbicati su rigogliose colline e vigneti attorno a rovine di antichi monasteri lasciano il passo ai campi di grano e di girasoli, la strada diventa diritta fino al piatto orizzonte. Solo i mulini a vento sono onnipresenti, quasi delle sentinelle che fanno la guardia a noi, piccoli esseri che macinano chilometri giorno dopo giorno sotto il loro silenzioso lavoro. I pensieri sul cammino diventano a volte radi, a volte troppo rumorosi. A volte bisogna trovare qualcuno che li ascolti e li sciolga per noi. A volte ci si trova a sciogliere i pensieri degli altri. Poi c’è il momento in cui si arriva a una consapevolezza e anche il bagaglio diventa più leggero: proprio come uno zaino di pellegrino con dentro l’essenziale per sopravvivere sul cammino, anche i pesi che ci portiamo dentro sono parte di quello che ci serve per affrontare la vita. C’è una lotta che ci spetta ogni giorno, dal primo all’ultimo passo che facciamo: accettare ciò che è stato e andare avanti, ancora cercando pace. Le storie di altri pellegrini che camminano con pesi più grandi dei nostri sono di esempio per non lamentarci e per ringraziare per i nostri e per i loro passi.
Intorno a Leon si entra nella seconda metà del cammino. Dalla percezione di un tempo lungo davanti a sé, si passa alla paura che tutto finisca troppo presto. Ma la condivisione con altri pellegrini e alcune tappe importanti che ci attendono ancora sul cammino fanno procedere senza pesantezza: due monti da superare scandiscono il successivo quarto del cammino, che diventa un saliscendi di esperienze. La croce di ferro aspetta i pellegrini, che lasciano ai suoi piedi un simbolo dei loro sforzi: una pietra, un biglietto, una foto, un braccialetto. Negli anni questo piccolo cumulo è diventato una collinetta in cima alla montagna, segno tangibile di quante storie sono passate prima di te. Poco dopo si lascia la regione di Castilla e Leon e si entra in Galizia. Il sentiero si circonda di boschi, di verdissimi pascoli, di chiesette di roccia, di corsi d’acqua limpidi, di borgate di montagna. Ci si avvicina a Santiago e la quantità di pellegrini aumenta. Poi dopo una collina e una veloce discesa si arriva alla città per cui si era partiti. Trovarsi nella piazza davanti alla cattedrale insieme ai propri compagni di viaggio lascia gli occhi pieni di lacrime e il cuore traboccante di emozioni, per ciascuno declinate in sfumature diverse. Mi prendo qualche giorno per stare in città, per scoprirne gli angoli e le storie, per rivedere casualmente volti incontrati e poi persi sul cammino, per gustarmi un po’ di tempo in cattedrale. Ma i piedi e la mente non sono ancora stanchi di sentire la strada scorrere e, quasi guidata da una volontà autonoma, un paio di giorni dopo mi trovo sul sentiero per la costa galliena: verso Fisterre e Muxia. Non bastano 800 chilometri per sentire di essere arrivati, il corpo ha bisogno di un ostacolo fisico: l’oceano disteso davanti che saluta il pellegrino con il suo blu turbolento. Sono alla fine del mondo, Finis Terrae come la chiamavano i Romani. Qui c’è un altro rito tramandato dai pellegrini: arrivare al faro all’ora del tramonto e sedersi sulla scogliera, per assistere alla fine del giorno dalla fine del mondo. Il tramonto sull’oceano fa sfiorare la fine, ogni fine, che ci lascia disorientati solo perché non sappiamo immaginarci quello che c’è dopo. Un giorno anche ciascuno di noi si tufferà in quel mare e scomparirà insieme al sole.
Dopo altri 29 chilometri per l’ultima tappa del cammino dell’apostolo Giacomo si arriva al santuario di Muxia, dove sento risuonare anche per me le stesse parole che, secondo la leggenda, la Vergine, dalla barca di pietra, ha rivolto al capostipite di noi pellegrini: “E’ ora di tornare indietro”. Così con il cuore pieno di gratitudine e di gioia (che in fondo sono la stessa cosa) cambio la rotta, adesso di nuovo ad est, verso il sole nascente, verso una nuova fase della vita, verso un nuovo cammino.
Cosa portare nello zaino per un viaggio di oltre un mese in cui ogni giorno si cammina tra le sei e le dieci ore? C’è un ordine di oggetti che non rispondono alla sezione “utilità”, ma a un altro bisogno del pellegrino: gli oggetti che per lui hanno un significato, da cui non può separarsi senza sentire di perdere qualcosa di sé. Una di queste cose irrinunciabili che ho portato con me nel cammino è stata la maglia con le ali di Lia. Non mi sono mai sentita sola. Per la maggior parte del tempo non lo ero fisicamente, ma ora so anche questo: ogni passo che poggiamo porta l’impronta di tante persone che appartengono alla nostra storia, vicina o lontana, e che hanno fatto anche solo un pezzo di strada con noi. Tutto ciò che è stato, tutti coloro che abbiamo incontrato hanno costruito giorno dopo giorno quello che siamo e il nostro modo di passeggiare nel mondo. A loro, a Lia, va la mia riconoscenza.